Sophia (+ string section) - Oct. 08 '09: Hiroshima Mon Amour, Torino (IT)

Set List
‘The Sea’
‘Swept Back’
‘Signs’
‘Ship in the Sand’
‘Oh, My Love’
‘Storm Clouds’
‘Leaving’
‘Pace’
‘Obvious’
‘Desert Song No. 2’
‘Dreaming’
‘I Left You’
‘The River Song’
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‘Heartache’
‘Lost (She Believed in Angels)’
‘So Slow’
‘Something’
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‘If a Change is Gonna Come’



Review 1
Qualche tempo fa Robin Proper-Sheppard cantava che la gente è come le stagioni. Innegabile il fascino della metafora, anche se si è dimenticato di ricordare che le stagioni svelano il loro significato proprio nel avvicendarsi senza soste, una dopo l’altra. Trascrivendo in musica la propria umana sensibilità, il leader dei Sophia ha dato forza a quest’accostamento, costruendo un’intera e preziosa carriera sullo standard umbratile del tardo autunno, periodo senza vere gelate ma irrimediabilmente triste. Le stagioni cambiano ma i Sophia non sono mai cambiati, passo dopo passo, disco dopo disco. L’ex God Machine non si è mai liberato del peso del dolore, delle ombre nell’anima, dei tormenti sentimentali, del rammarico per quel che non sarebbe mai (più) stato. Ci sarebbe piaciuto incontrarlo ad una svolta prima o poi, anche se a questo punto, dopo cinque album di dolente inclinazione, sembra difficile presagire un cambiamento. Non che sia un male, intendiamoci. Rinunciare alla varietà in questo caso non comporta assenza di fascino. Robin è un autore notevole e ha scritto diverse belle canzoni, raccolte per giunta in opere dal fortissimo impatto emotivo. In una fase in cui il verbo slowcore ha trovato fortuna in songwriter di gran lunga meno sinceri di lui, ci teniamo volentieri il broncio dell’originale e andiamo a vederlo ogniqualvolta ci capiti a tiro.

Nuovamente in Italia dopo un paio di anni, in un paese che ama (comunque riamato), Proper-Sheppard torna in città dove ci era già capitato di vederlo in ben due occasioni nel 2004, all’Hiroshima Mon amour. Oggi il locale non è esattamente pieno come cinque anni fa, segno che l’interesse per questo artista si è in parte raffreddato col tempo (ma va detto che quello era il tour dell’ottimo ‘People Are Like Seasons’). Poco importa. Rispetto al suo più recente passaggio italiano, un paio di anni fa, la proposta di oggi pare decisamente più allettante, come suggerito dal gran numero di sedie, microfoni e strumenti che notiamo sul palco entrando nella sala. I corposi interventi degli archi nel recente ‘There Are No Goodbyes’ come nel precedente ‘Technology Won’t Save Us’, lasciano intendere un’opzione live altrettanto sontuosa. L’ingresso dei musicisti conferma pienamente le nostre impressioni, con lo schieramento, attorno al carismatico frontman, di un chitarrista, un bassista, un batterista, un tastierista (e terzo chitarrista), oltre ad un quartetto d’archi piazzato più in alto sulla destra.
Robin comincia salutando un pubblico alquanto caloroso, ringrazia i presenti per essere venuti (lo farà diverse altre volte) e quindi da il via all’esibizione. Al di là di alcuni colorati interventi del cantante tra un pezzo e l’altro, la partenza è decisamente lenta. Due dei primi quattro brani sono ripresi a sorpresa dal datato mini ‘The Nachten’, ma l’impatto è inferiore alle aspettative: ‘The Sea’ perde un po’ delle sue incredibili suggestioni e pare troppo contratta, così come ‘Ship in the Sand’. In mezzo, una versione al cloroformio della magnifica ‘Swept Back’ ed una ‘Signs’ con molto meno mordente che su disco denunciano le difficoltà di carburazione di un collettivo numeroso ma in apparenza non troppo armonico. Paradossalmente la scossa arriva come per magia con l’intervento della drum machine nell’introduzione di ‘Oh, My Love’, manco a dirlo, uno dei classici: inizia qui il vero concerto o, se preferite, un altro concerto. Come macchina ideata per funzionare a pieni giri, i Sophia a nove elementi rendono molto di più con i ritmi concitati e con i colori abbaglianti di qualche opportuna esplosione sonica. La Takamine di Robin seduce con le sue sottili trame acustiche, ma è nelle bordate elettrificate che accende realmente le canzoni, mentre il cantante si allontana dal microfono per contorcersi in una continua danza sotto il riflettore rosso. E’ stato lui stesso, dopo il primo brano, a chiedere al tecnico di abbassare tutte le altre luci per creare un’atmosfera, una cupezza diffusa, più in linea con le canzoni malinconiche e spesso crude della band. Nella penombra del salone dell’Hiroshima, scherza sui cliché e gli stereotipi che da sempre lo accompagnano. Pare un buon segno.
In questo clima vivace e ricco di stimoli, non sfigurano diversi titoli tra quelli dell’ultima opera dei Sophia. Manca – e fatichiamo a capire il perché – la canzone che da il nome all’album. Funzionano invece egregiamente una brillante ‘Storm Clouds’ e la pimpante ‘Obvious’, senz’altro tra i migliori episodi di ‘There Are No Goodbyes’. Per quanto gravato da numerosi passaggi di pura enfasi melodrammatica, risulta evidente nella trascrizione in ambito live che il nuovo disco a marchio Sophia contiene diverse buone canzoni e che non mancano aperture luminose, positive e quasi pop, così come nel poco fortunato predecessore (una versione tonica della non troppo solare ‘Pace’ lo testimonia alla perfezione). In fondo le parole di Robin nella chiusa di ‘Portugal’ lo dicevano abbastanza chiaramente: “Non è mai troppo tardi per cambiare”. Se da questo assunto ad una radicale rivoluzione copernicana la distanza effettiva è a dir poco smisurata, non si può negare che la prova di Proper-Sheppard e compagni questa sera può vantare comunque una ricchezza di spunti e fragranze come mai ci era capitato di riscontrare in un live della formazione californiana trapiantata a Londra.
Il meglio, non è una novità, ci è riservato con le pagine più epiche nel passato dei Sophia. ‘Desert Song No. 2’ si impone con un’intensità a dir poco miracolosa, spaziando da una desolata radura acustica (con la voce di Robin a predicare quasi in solitudine) ad un corridoio entusiasmante con piano e chitarra a braccetto, fino alla rumorosissima coda di schiumante vigore elettrico. Se si esclude il discreto intermezzo di ‘Dreaming’, evidentemente piazzato per rifiatare e far rifiatare, l’ideale tripletta con l’immarcescibile ‘I Left You’ (in pratica il manifesto della band dal vivo) e la torrenziale ‘The River Song’ si guadagna a mani basse la palma di miglior momento della serata. Dall’oceano al fiume in un itinerario scontato ma ugualmente affascinante, con la sempre più marcata deriva verso lidi post-rock (la convivenza di feedback e violini impazziti nel serrato finale ricorda i Silver Mt. Zion) da intendere come naturale sbocco nervoso ed emotivo.
Nel primo dei due ritorni in scena dopo i meritati applausi, Robin è scortato unicamente dal suo fedele quartetto d’archi. Va in scena una totale sconfessione del clima di robusta ed elettrizzante euforia appena chiusosi nella tempesta sonica. “Musicalmente è la soluzione che preferisco”, afferma lui scherzando con un pubblico definito bonariamente come composto da “motherfucker” e “amanti dell’heavy metal”. Quattro canzoni tra quelle che meglio si prestano vengono eseguite in veste sobria e senza fronzoli, solo voce, chitarra ed elegante accompagnamento di violini. Un set breve ma sufficientemente evocativo, con discreto repertorio di cuori infranti, ritorno al passato remoto di ‘Fixed Water’, ed una ‘Something’ depurata dalle debolezze del duetto su disco e dedicata al grande amore della vita di Robin. C’è anche spazio per un brano a richiesta (ma l’imbeccata al pubblico viene proprio dal cantante), ovvero una languida versione di ‘So Slow’. Potrebbe bastare. Il gruppo, in vena di regali per l’ultima serata italiana del tour, rientra nuovamente nell’acclamazione generale e attacca una sporchissima ‘If a Change is Gonna Come’. A dispetto del titolo del nuovo album, un eccellente arrivederci.
Stefano Ferreri, www.indie-rock.it


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