Sophia (Robin solo) - Apr. 26 '10: sPAZIO211, Torino (IT)


Review
A volte ci si dimentica di quanto sia importante il silenzio. Non parlo del nulla, del vuoto, ma di un sussurro trattenuto o di un feedback di chitarra da sfumare nella propria mente, di qualche secondo di quiete tachicardica che quasi ci imbarazza ma che in fondo ci emoziona. Sono poche le band che concepiscono il silenzio come se fosse un suono; i Sophia sono senza dubbio una di queste. Curioso, perchè le origini del gruppo risalgono allo stoner metal psichedelico dei God Machine, band californiana dalle tinte forti, satura di distorsioni e urla generazionali ancora più forti e inquietanti di quelle del fenomeno grunge dilagante in quei primi anni '90. L'improvvisa morte del bassista Jimmy Fernandez getta Robin Proper-Sheppard nello sconforto. Il leader della band, cantante e chitarrista, decide di chiudere il progetto, trasferirsi definitivamente in Inghilterra, fondare un'etichetta indipendente (la Flower Shop Recordings) e scrivere nuove canzoni, malinconiche e scarne ballate acustiche, a nome Sophia.
È in questa veste cantautoriale che l'americano si presenta sul palco. Alle sue spalle una sobria scenografia che ricalca l'ambiente casalingo della copertina dell'ultimo disco, There Are No Goodbyes: non a caso la serata proposta da Spazio 211 porta il titolo di At home with Sophia e il poco pubblico coraggioso e umidiccio che ha affrontato caparbiamente uno dei primi temporali della stagione rende l'atmosfera ancora più intima.
Si inizia con vecchi classici che riscaldano il cuore dei fans: If Only, So Slow e il morbido arpeggiare di Ship in the Sand, canzone proposta esclusivamente dal vivo e contenuta nella raccolta live De Nachten. La chitarra non è amplificata per permettere a un microfono poli-direzionale di lusso di captare sia la voce sia lo strumento. Questo perchè, spiega il padrone di casa Robin, il concerto sarà registrato e condiviso con il pubblico pagante. Elegante come sempre, con la sua immancabile camicia scura e un paio di mocassini piuttosto rumorosi, il signor Sophia è uno che non nasconde l'emozione: le dite tremolanti che si poggiano incerte sui tasti della chitarra non sono di certo quelle di un inesperto ma di un timido cantastorie, che soffre visibilmente nel rituffarsi in quelle canzoni del secolo scorso. Are You Happy Now, The Sea e I Left You, con il suo epico crescendo finale, sono ballate che ogni chitarrista ha sempre tentato di scrivere dopo una delusione sentimentale o una notte passata a guardare le stelle, senza mai riuscirci così efficacemente. Gli si può rimproverare il fatto di scrivere brani tutte molto simili, testi che evocano sempre il tema di mancanza, solitudine, morte e musiche imperniate su quel Do nona che è e rimarrà l'accordo malinconico per eccellenza; ma riuscire a zittire e immobilizzare un pubblico solitamente chiacchierone e poco attento con quelle leggere note non amplificate è la dimostrazione che la penna di Robin Proper-Sheppard non ha ancora esaurito l'inchiostro.
Unica caduta di stile della serata è la base registrata vagamente new age di Storm Clouds, troppo invadente e patinata per l'autore stesso, che ammette col sorriso sulle labbra: "esperimento non riuscito". Fortunatamente il nostro uomo si rivela anche un simpatico intrattenitore, scherza durante le pause raccontando scene della serie TV Friends per poi negare con imbarazzo di guardare la celebre sit-com e bacchetta con ironia qualche molesto disturbatore della quiete acustica.
Si chiude con Signs dall'ultimo album e la meno recente ma ancor più delicata Another Trauma, per la quale mi vergogno persino del debole clic della macchina fotografica che pare echeggiare come un intruso tra le mura bagnate del club di via Cigna.
Prima che lo Spazio 211 chiuda i battenti mi fermo a scambiare quattro parole con Robin. Gli chiedo qual'è la canzone dei Sophia che preferisce. Something, mi dice. Come dagli torto: lenta e triste come tutte le altre, ma con in più una splendida e dolce voce femminile a fare da controcanto. "Peccato però che stasera mancasse quella voce", ribatto. Mi risponde mentre qualcuno del locale cerca di spingermi fuori, sotto la pioggia, per andare prima a dormire: "No, è stata emozionante: c'eravate voi, là sotto, a cantare quella parte".
Enrico Viarengo, Acting Out Magazine


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